“Non lasciamole sole”: Barbablù-storia di quotidiana violenza
di Marta Cutugno
“Un feto. Vorrei essere un feto per non dover decidere quando uscire”. Suoni metallici risuonano senza sosta. Da un armadio, al centro della scena, luogo privato, rifugio dell’anima, viene fuori Silvia, una donna con le mani sul ventre ed un invisibile bagaglio di colpe, prima fra tutte quella di essere venuta al mondo femmina. Sua è la vergogna del ciclo mestruale ed il bianco vestito tra le mani si macchia di sangue rosso. “Ti sei preso tutta la mia vita, i silenzi, i respiri, ogni cazzo di battito del mio cuore ti sei preso… con un ballo“. Un ballo con Massimo, uno sconosciuto che si presenta non con i suoi “sono” bensì con una lunga serie di “mi piace“, allacciando le scarpe lucide che “riflettono come gli occhi della paura…come un ballo“.
Tante storie in una. È questo “Barbablù-storia di quotidiana violenza”, una produzione del Teatro del Cerchio di Parma, andata in scena domenica 24 gennaio al Teatro Savio di Messina, per la rassegna “Atto Unico” della QA QuasiAnonimaProduzioni. Guardando alla fiaba dell’orco sanguinario che tanto spaventa, il testo e la regia di Mario Mascitelli affrontano, in modo concreto e durissimo, il dolore della violenza domestica che registra dati sempre più allarmanti. Grazie alla collaborazione con il Centro Antiviolenza di Parma, Mascitelli è venuto a contatto con l’orrendo fenomeno e, con la vera sensibilità che va oltre perché racconta tutto e non fa sconti, conduce all’amarissima riflessione.
Una sera, Silvia (Gabriella Carrozza) e Massimo (Mario Aroldi) ballano un appassionato tango, dimensione che esige un rapporto di totale scambio e di fiducia tra uomo e donna. “È l’uomo per me” di Mina accompagna il primo appuntamento che si consuma in un picnic sull’erba. Il breve rapido idillio culmina nelle nozze: Silvia va incontro al suo sogno, Massimo firma un accordo. “Oggi acquisto quel ventre che mi farà padre“. Sulle note di “Vent’anni” di Massimo Ranieri, muovono i primi e lenti passi da sposi, lui con le sue scarpe lucide, lei a piedi nudi. Un attimo dopo cambia tutto o meglio tutto appare per ciò che è. L’autore-regista racconta la violenza fisica e psicologia senza artificio, nella sua reale crudeltà e le straordinarie interpretazioni dei due attori sono strumento delle sue intenzioni. La figura della madre della sposa, interpretata ottimamente da MariaLaura Ardizzone, si affaccia, di tanto in tanto, al di sopra dell’armadio, immersa nelle sue futili problematiche, sempre pronta a polverizzare la restante scarsa autostima della figlia con consigli inopportuni a tutela del “matrimonio“.
Gabriella Carrozza è una donna accartocciata su se stessa, prigioniera di un orco senza barba blu a cui deve chiedere il permesso per tagliarsi i capelli, per uscire di casa, per respirare; Mario Aroldi è il padrone che appende la chiave in cima all’armadio e la chiave non arresta il suo sanguinare. Dieci secondi di pentimento accompagnati dal classico “sono nervoso, no so cosa sia successo, non lo faccio più” anticipano l’ozio in poltrona con, in sottofondo, “Pregherò” di Celentano. Ma dura poco: la cintura, le frustate sull’armadio e sul pavimento, la rabbia, il fallimento del suo oggetto: “A che servono le mogli se non per i figli“. Si stabilisce una distanza irrimediabile che conduce Silvia ad un tentativo di suicidio andato a male, mentre è divorata dai sensi di colpa e di inadeguatezza. Per Silvia, però, la svolta arriva oltre la sua volontà. Si può dire basta e portarne i segni o si può restare e soccombere ancora ed ancora con altrettanti segni ma per lei è diverso. La fine dell’incubo si concentra in due telefonate: nella prima, i carabinieri annunciano il decesso del marito in un incidente; nella seconda, il laboratorio di analisi le comunica che finalmente è incinta. Piangere o ridere, non fa più differenza. A tutte le donne coraggiose, perché per andare o per restare ci vuole sempre coraggio: che siano botte o sottilissima violenza verbale e psicologica, Amare non è annullare, Amare non è subire.
Grazie a QA ed a Mario Mascitelli. Queste le sue parole: “Da questo è partito il nostro lavoro: voler raccontare con immagini, musica e testo una storia dall’apparenza “comune”. Vorremmo fosse un’accorata raccomandazione alle donne, a quelle donne fragili che non devono mai annientare la propria esistenza in favore di Orchi con una fede al dito e un monito a tutti noi, gente comune, a restare sempre in ascolto di quei messaggi di aiuto che spesso si manifestano in maniera timorosa e velata. Troppe volte, alcune di loro, alzano la cornetta per comporre il numero delle autorità ma poi non trovano la forza di parlare e mettono giù. Non lasciamole sole”