“Le cinque lune di Myskin”: intervista all’autore Nicola Bozzo
di Marta Cutugno
Carteggi Letterari ha incontrato l’autore di “Le cinque lune di Myskin”, romanzo edito da Pungitopo Editrice.
Esaustive e di riferimento le parole lette in una precedente recensione al testo curata da Marco Olivieri e pubblicata su Carteggi rivista: “Avvocato messinese, con un passato significativo in campo politico e una passione viscerale per la letteratura, l’autore mette in scena, in un continuo gioco dialettico tra vita e pagina scritta, paradossi e umanità ferite, confessioni e deliri, in un’alternanza coinvolgente di congetture, sfumature oniriche, cronaca, storia, invenzioni e ipotesi romanzesche. Il tutto nel segno di una pluralità di voci che valorizza questo viaggio nell’interiorità. Un viaggio di memorie e lampi di creazione allo stato puro intrisi di compassione nei confronti dell’umanità, di pietas per la sua essenza fragilmente disperata”.
“Le cinque lune di Myskin” è stato presentato a Messina in marzo scorso alla presenza dell’autore e di Claudio Fava presso il Mondadori Bookstore. Un romanzo di grande interesse che ha già registrato ampio favore tra lettori e critici di settore.
– Intervista a Nicola Bozzo –
“Ispirato da quello che accadeva e che si faceva e disfaceva sotto gli occhi, un romanzo. In una notte. Non temevo il plagio perché c’era troppa mia carne“. Bozzo, quanto di autobiografico c’è in questo suo romanzo?
L’aspetto autobiografico costituisce il tema classico e inevitabile di ogni narrazione letteraria. Credo che, per usare un’espressione della cultura francese, ognuno di noi è un homme situè. Siamo tutti dentro una rete di relazioni, sociali, psicologiche, affettive, di potere etc. etc., dentro cui in qualche modo ci definiamo. Quindi, inevitabilmente, ogni autobiografia è sempre relazionale. Naturalmente, la qualità dello scrittore è inestricabilmente legata alla sua capacità di vivere, come proprie, altre esistenze o, ancor meglio, di coglierne i segni, gli echi, i frammenti silenti posto che questo lavoro di interpretazione e di immaginazione riguarda comunque anche se stesso, quindi ritengo che la dimensione autobiografica diventi poi la chiave attraverso la quale si accede all’altro. Del resto, l’autobiografismo puro nel genere delle confessioni, dei ricordi personali, mi risulta sempre sospetto. A questo proposito possiamo citare Paul Valery che, scrivendo su Stendhal, diceva “Chi si confessa, mente allontanandosi così dal vero effettivo il quale è senza consistenza o è informe ed in genere indistinto. La confidenza pensa sempre alla gloria, allo scandalo, alla scusa, alla propaganda”.
Cinque lune, titoli che spesso riportano nomi propri di persona, sezioni e descrizioni come flashes. Ci sono ragioni precise dietro a queste particolari scelte di struttura?
Non ho pensato a una struttura del romanzo definita a priori, cioè prima dell’atto proprio dello scrivere. Il mio è stato un lavoro lungo, intermittente, per certi versi carsico. L’affermazione che si scrive scrivendo non è una vuota tautologia, perché l’atto dello scrivere ha in sé anche un valore conoscitivo e di scoperta e permette approdi non noti prima dell’atto stesso dello scrivere. Ho pensato, infine, che gli scritti avessero assunto la consistenza di un romanzo quando mi è sembrato di cogliere dietro le singole storie, i singoli personaggi, un tema in qualche modo unificante. Per unificante non intendo l’unità formale che può essere data per esempio dalla trama. La mia unità è di tipo esistenziale e in qualche modo morale e si condensa intorno all’espressione ‘compassione’ sebbene credo che questa parola non si trovi mai nel libro.
Non si parla di “nascere” ma di “accadere nel mondo“. Perché?
L’espressione ‘accadere’ credo sia fortemente legata all’idea di un destino. Come è noto (anche se non ci ho pensato nella stesura) potrebbe esserci una relazione al dasein di Heidegger, l’essere gettati nel mondo, insomma il tema poi sviluppato dall’esistenzialismo. I miei personaggi, certamente ‘accadono’, ma, nel contempo, insorgono. Potrebbe dirsi, con Camus che la loro grandezza (per quanto laceri, disperati ed antieroi per definizione) “è di essere più forti della propria condizione”.
Di un personaggio immerso nel passato, un apprezzato orologiaio, si dice “Il suo tempo era totalmente relativizzato nella sfera della coscienza“. In che modo si inscrive il tempo nella sua esperienza di vita? Quale è la sua concezione del tempo?
Ovviamente tutto è nel tempo tranne il tempo. Nel caso dell’orologiaio salta il meccanismo interiore di riconoscimento del passato, presente e futuro. Il passato si cristallizza e diventa tutto. Questa, ovviamente, è una forma paranoide. Non credo che il ricordo o la memoria consistano nel rintracciare, in una sorta di purezza atemporale, i fatti o le sensazioni trascorse. Il passato si sporca sempre con il presente, perché noi ricordiamo essendo divenuti altro ed il ricordo è sempre il riflesso, in qualche modo, della nostra attuale condizione di vita. Può farsi un esempio col ricordo delle persone che abbiamo amato e che non ci sono più. Nei momenti di più cupa e lacera disperazione, il bisogno delle persone scomparse diventa immenso e la loro assenza, irreparabile. In altri momenti, il ricordo, per quanto angosciato, assume tuttavia una sua paradossale leggerezza. Si giunge perfino all’accettazione della morte proprio perché in fondo noi stiamo vivendo e forse il nostro stesso vivere diventa un tributo al loro amore e quindi, da qui, una certa dose di sopportazione della loro assenza.
“…tutta la città che si affaccia fedelmente sul mare, con le colline della sponda opposta che degradano fino a quasi il punto d’approdo delle navi dell’eterna traversata, due lembi di terra che si specchiano e forse ormai si amano”. Ne “Le cinque lune”, miste alla ricchezza sognante del suo scrivere ci sono parecchi riferimenti non soltanto geografici ed ambientali alla sua città ma anche a fatti e persone, come per esempio al venditore di rose Alì.
Ci sono parecchi riferimenti a persone in particolare dimenticate che ho in qualche modo incrociato nel mio vivere in questo luogo. Così il mimo Gerard, la ragazza col piercing, Elsa, l’uomo dal candore allucinato e altro ancora. Si tratta appunto di persone, non di luoghi. Non c’è nel mio libro nessuna concessione ad un’iconografia più o meno poetica dei luoghi. Non ci sono fate morgane o città sommerse, ma soltanto persone. O meglio, frammenti sepolti di vite sotterranee che, in qualche modo la scrittura vuole riscattare. Ho sempre pensato che ci sia un nesso irrinunciabile tra scrittura e salvezza, che può manifestarsi in tante forme, ad esempio la scrittura sacra è ovviamente legata al tema della salvezza, ma poi c’è anche il tema della scrittura che salva dall’oblio, dalla smemoratezza, dalla dimenticanza, dalla marginalità. Qui la scrittura si intreccia con la testimonianza, ed in ultimo, ed è forse questo il tema più complesso, la scrittura letteraria ha una relazione con la salvezza perché permette di dire quello che in nessun’altra forma di manifestazione del pensiero umano può dirsi. La letteratura, cioè come scoperta che solo nel suo corpo può rivelarsi. Come in ultimo, disvelamento di un mondo altro, altrimenti muto.
Nell’ultima delle Cinque Lune si parla di Stretto e di nostalgia: ” È lì il mio posto, su quel limite che separa e unisce il vivere e il morire, su quel lembo che non può dirsi, ma neppure negare” e si fa riferimento al ritrarsi, al defilarsi delle acque. Che sia metafora di qualcosa che stiamo effettivamente perdendo nella realtà e che ci costringerà a vedere cosa effettivamente siamo e cosa avverrà dopo tutto questo ritrarsi?
Per ciò che riguarda la scomparsa dello Stretto, quello che ho voluto intendere è l’irruzione nel mondo di una sorta di evento metafisico che ridefinisce ogni termine delle vite individuali. Infatti, la stragrande maggioranza delle persone, non reagisce alla scomparsa del mare. Si adagia e si nasconde nella nuova condizione, in modo conformistico e impaurito. In qualche modo si tratta di una metafora della contemporaneità dove tutto può accadere, ormai, accettato dalconformismo e dal fatalismo. Viceversa, i miei personaggi, per quanto sgangherati e marginali, si ribellano all’inaudito esistenziale della scomparsa del mare e da qui, l’ordito e la trama che in qualche modo li lega e li unisce, facendoli partecipare di una sorta di eguale sostanza umana. Sono loro a voler farsi in qualche modo comunità anche nelle forme del delirio.
“…posso vivere solo se scritta, giacché così sono venuta al mondo. E posso essere scritta solo come dramma, giacché fuori dal dramma perderei consistenza …” Nel suo libro, ci si ritrova spesso come dinanzi a monologhi intimamente descrittivi di sé e del mondo. Questo suo lavoro, a suo avviso, potrebbe prestarsi con facilità ad una trasposizione o adattamento drammaturgico?
Non pochi recensori e lettori hanno evidenziato questa dimensione teatrale. In fondo, lo credo anch’io.