Daniel Oren al Massimo e Roberta Mantegna, ‘soave fanciulla’ per “La bohème” di G.Puccini
di Marta Cutugno
Palermo. Emozioni prenatalizie in musica al Teatro Massimo con “La bohème” di Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica per la regia di Mario Pontiggia, scene e costumi di Francesco Zito (assistente alle scene Antonella Conte, assistente ai costumi Chicca Ruocco), luci di Bruno Ciulli . Nell’allestimento palermitano che vuole mantenersi aderente alla tradizione, il titolo pucciniano, uno tra i più rappresentati al mondo, non giunge ad un pubblico assuefatto ma sorprende per la sua carica emozionale che all’addolorato grido di Rodolfo sul finale si tramuta in brivido di commozione come se, per lo spettatore, fosse la prima volta.
Molto bello l’impianto scenico curato nel più piccolo particolare da Francesco Zito. L’idea nitida della soffitta fredda e povera è sorretta da accorgimenti fondamentali, minuzie che un occhio attento non può non cogliere, tra questi quel grigio fumo dominante e gli elementi di scena necessari allo spiegamento del libretto ma non solo; le grandi e le piccole cose, come il legno scheggiato del tavolo o la luce del fuoco che riflette sulle mani degli interpreti quando questi tentano di riscaldarsi. L’ingresso è laterale, alla sinistra del palcoscenico. Da grandi travi a vista ed una vetrata imponente che taglia a metà la scena in orizzontale si ricava l’idea dell’ampiezza della struttura e dell’intero stabile. Oltre quei vetri, nel quadro della morte, si potrà ammirare una stupenda vista della città di Parigi, ricordo di una serenità lontana, nell’imminente, ultimo istante di vita. Splendida la ricostruzione del Caffè Momus, esplosione scintillante di mondanità con la presenza di un piccolo ed elegante chiosco circolare posto al centro (in fondo ed intorno al quale è possibile riconoscere l’eleganza dell’Art Noveau), le case ed i negozi in prospettiva per ricavarne l’intersezione di strade e vicoli. Il terzo quadro si consuma presso la barriera d’Enfer in cui il senso di profondità e dinamismo è suggerito dalla presenza di un sovrapassaggio che buca la scena in diagonale e di sagome di alberi spogli sul fondo, oltre il cancello di ferro. Alla preziosa cura delle scenografie si accostano costumi e giochi di luce che non sempre si allineano coerentemente all’insieme: nella perenne reminiscenza dei temi dominanti che sono il freddo e la malattia, la presenza eccessiva ed invadente delle luci sembra, talvolta, smorzare visivamente quell’enfasi necessaria al momento, ed i costumi, che si mantengono scuri nella prima parte per poi approdare al bianco-crema sul finale, non riconducono propriamente ad una condizione di stenti e precarietà. Nel complesso, dal canto suo, la regia niente toglie e niente aggiunge al già consumato dramma tra i vicoli del Quartiere Latino e procede nel susseguirsi anche troppo ordinario degli eventi.
Nella generale gradevolezza dell’insieme, prima menzione va alla resa musicale. Dinanzi all’Orchestra del Teatro Massimo in ottima forma, il M° Daniel Oren dipinge emozionalmente ogni battuta della storica partitura. Pregno di quell’intensità caratteristica che è propria del maestro israeliano, il suono è limpido ed evocativo, ed accompagna ogni cenno e sguardo, ogni respiro. Con Bohème, Puccini approda ad una nuova poetica, la poetica della memoria e dell’impressione e Daniel Oren lascia che i suoni non raccontino i fatti ma ci permettano di riviverli attraverso cura struggente ed amorevole nella trattazione dei temi, dei respiri agogici e delle dinamiche.
Le Scene liriche in quattro quadri che raccontano di artisti e di fanciulle in una vigilia di Natale parigina del 1830 circa, si ispirano al romanzo “Scènes de la vie de Bohème” di Henri Murger. Le Scènes, dapprima pubblicate a puntate sul periodico Le Corsaire-Satan tra il 1845 e il 1849, vennero trasferite poi in pièce teatrale di successo ed in romanzo, con le correzioni e le modifiche del caso che vedono Mimì passare da donnetta facile, traditrice e morente in una solitaria corsia d’ospedale a ragazza semplice, devota e timorata di Dio quale è la gaia fioraia pucciniana. Nella rappresentazione di sabato 15, sul palcoscenico del Massimo, in scena il cast alternativo in cui spicca Roberta Mantegna. Il soprano palermitano, classe 1988, sfoggia un timbro elegante e, tramite una partecipazione scenica garbata e la soavità dei suoni, restituisce con delicatezza eterea la Mimì dalla fragile salute. Nel ruolo dello squattrinato poeta Rodolfo, il tenore Vincenzo Costanzo: interprete fermo e fine nella zona centrale, dimostra affanno nei passaggi al registro acuto. Ottima la sua presenza scenica e la compartecipazione emotiva ai tratti significativi dell’opera che lo vuole artefice di un finale commovente. Gruppo affiatato nello scambio scenico e vocale per gli artisti bohémienne, (Vittorio Prato come Marcello, Antonio Di Matteo nel ruolo di Colline e Italo Proferisce come Schaunard) che insieme a Rodolfo animano il primo quadro ai danni del padrone di casa Benoit, uno strepitoso Angelo Nardinocchi (impegnato anche nella parte di Alcindoro). Musetta è la brava Hasmik Torosyan, maliziosa e appassionata quanto serve al Caffè Momus, compassionevole ed empatica sul finale, si mantiene interprete attenta in vocalità ed aderenza scenica. Completano il cast Domenico Ghegghi (Parpignol), Giuseppe Toia (Sergente dei doganieri), Gaetano Tiscali (Un doganiere), Salvo Randazzo (Un venditore di prugne). Ottimamente preparati il Coro del Teatro Massimo diretto dal M° Piero Monti ed il Coro di Voci Bianche diretto dal M° Salvatore Punturo. L’opera resterà in scena fino a domenica 23 dicembre.
Rosellina Garbo Photographer