“La traviata”: croce e delizia di Giuseppe Verdi al Teatro Vittorio Emanuele
di Marta Cutugno
“Un ritratto di donna nessuno da lui se l’aspettava” – M. Mila
Messina. Massimo Mila, tra i più accreditati biografi verdiani, ha sempre distinto due diverse personalità operistiche in Giuseppe Verdi: la prima, attiva dagli albori della sua produzione sino al completamento della Trilogia popolare, e la seconda in opera da “I vespri siciliani” all’ultimo “Falstaff”. “La traviata”, che è melodramma ultimo del primo Verdi, attraversa le epoche senza accusare i segni del tempo e si annovera tra le opere liriche più eseguite al mondo, la più rappresentata, tra l’altro, anche a Messina. Dopo il rinvio dello scorso maggio, la storia della mondana parigina che trovò redenzione nell’amore, è andata in scena al Teatro Vittorio Emanuele dal 16 al 20 novembre per la regia, le scene ed i costumi di Carlo Antonio De Lucia e le coreografie di Sofia Lavinia Amisich. Sul podio, il M° Carlo Palleschi alla guida dell’Orchestra del Teatro Vittorio Emanuele.
Nella messa in scena messinese, una camelia cinge la scollatura della protagonista e riporta nell’immediato a “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas figlio, seme dell’ispirazione originaria per il capolavoro verdiano. Al suono delle primissime note, l’apertura del sipario rivela il salotto di casa Valery con la presenza immobile, in fermo immagine, degli amici di Violetta. La debole coreografia di una fanciulla, che si muove in mezzo a quelle figure spente ed in sospensione, nulla aggiunge al narrato e, se non toglie, probabilmente distoglie dalla vera protagonista di quel preciso momento, l’ouverture, precludendone l’adempimento della sua primaria funzione ovvero quella di bastare a se stessa ed introdurre in musica il racconto della cortigiana verdiana. Lo stesso accadrà più tardi, con un passo a due eseguito in occasione del preludio al terzo atto, alla presenza della tisica Violetta sul letto di morte. Nel complesso, la regia – così come il gioco di luci impiegato – regge debolmente la sequenza delle azioni e gli eventi si susseguono privi di quel trasporto necessario ad un coinvolgimento maggiore da parte del pubblico. Compensa l’eleganza delle scene che giungono allo sguardo dello spettatore su due distinti livelli. Da un lato, lo stile ricercato dei piccoli arredi presenti sul palcoscenico: per il primo atto, una panca imbottita circolare al centro, sedie e canapè in carta da zucchero; al secondo atto gli usuali arredi da giardino della casa di campagna e, dopo la reintegrata pomposità della Galleria nel palazzo di Flora, sul finale, la camera da letto di Violetta nella tradizionale e già vista composizione. Al sistema scenico più vicino e funzionale ai protagonisti, si contrappone l’imponenza delle strutture superiori con colonne e cornici ricche, anche troppo, di fregi e di ornamenti. Bellissimi sono i costumi: di buon gusto, come dovuto, le tenute maschili e di visibili finezze, gli abiti con pizzi e tulle operati da lustrini e passamanerie.
“Essere amata amando”. Gioia fino a quel momento sconosciuta a Violetta, il cui sacrifico le permetterà di mutare in eroina d’amore e morte. Violetta, fiore dal melanconico intimismo che, nel melodramma su libretto di Francesco Maria Piave, va in contrasto con quell’atmosfera leggera delle due feste, mere proiezioni di una realtà in mutamento e di un passato che non tornerà. Elvira Fatykhova non riesce a suggerire il caratteristico tremito che ha reso immortale la Valery. La sua è un’esecuzione adeguata e sonora ma distante da un’ interpretazione sentita e aderente al ruolo: pur muovendosi in maniera corretta tra le linee della partitura, con buone agilità ed acuti, il soprano russo è lontano dalla drammaticità propria del suo personaggio per timbro e tessitura, condizione questa che si rivelerà sempre più evidente nella corsa al finale. L’innamorato Alfredo Germont è Roberto Iuliano: la sua è una performance oscillante, priva di stabilità vocale, nonostante le buone intenzioni. Nell’insieme, la coppia non ha esercitato quel potere emozionale trascinante che ci si aspetta ed, in questo, non ha incontrato complicità e sostegno e nelle scelte registiche ed in quelle musicali. La rilettura del M° Carlo Palleschi, infatti, non può dirsi propriamente vicina ad un disegno coordinato, a discapito di tempi e di volumi. La gestione di andamenti sostenuti e di sonorità spesso troppo accese ha limitato lo spazio espressivo e dinamico a disposizione delle voci alle quali, gioco forza, è stata concessa una gamma di sfumature ridotta. Giuseppe Altomare come Germont padre si distingue per la proiezione vocale e per l’interessante presenza scenica che il pubblico ha molto apprezzato, riservandogli prolungati applausi. Poco convincente è la Flora di Sara Palana mentre compiuta è Annina interpretata da Francesca Canale. Completano il cast Davide Scigliano bene come Gastone, Alberto Crapanzano (Barone Douphol), Alessandro Vargetto (Marchese D’Obigny), Maurizio Muscolino (Dott. Grenvil), Antonio Mauceri (Giuseppe/Domestico), Marcello Siclari(Commissario). Molto buona la resa vocale e la partecipazione scenica del Coro Lirico “F. Cilea” diretto dal M° Bruno Tirotta.
In copertina : particolare – Grapich design e comunicazione TBdesign