Un vortice ossessivo di azione e sonoro per DELITTO/CASTIGO – con Rubini e Lo Cascio al Vittorio Emanuele
di Marta Cutugno
Messina. “Perché ho ucciso?” Al Vittorio Emanuele, nel primo weekend di febbraio, è andato in scena il tormento di Rodiòn Romànovic Raskòl’nikov, un giovane studente indigente, un povero che affoga tra i debiti e che, oltre la comune legge, si macchia di duplice assassinio. Un’ora tre quarti e più col fiato sospeso per DELITTO/CASTIGO di Fëdor Dostoevskij nell’adattamento teatrale di Sergio Rubini e CarlaCavalluzzi. Sul palcoscenico, Luigi Lo Cascio e Sergio Rubini insieme a Francesco Bonomo e Francesca Pasquini, con le voci fuori campo di Federico Benvenuto, Simone Borrelli, Edoardo Coen e Alessandro Minati, per la regia di Rubini con Gisella Gobbi regista collaboratore, una produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo e Fondazione Teatro della Toscana.
“… perché volevo diventare come Napoleone a cui tutto èpermesso“. Una messa in scena che travolge, che scuote e lascia irrimediabilmente un solco nello spettatore e nella sua parte più intima. Fugate le potenziali complicazioni nella trasposizione del testo – da letterario a teatrale – di un’opera di così ampio spessore e respiro, la più conosciuta del romanziere e filosofo russo, Rubini e Cavalluzzi esplorano ottimamente quel conflitto interiore tra napoleonica auto-assoluzione e devastante senso di colpa. Lucidità ed ossessione, responsabilità e panico trovano esplicazione nella regia di Rubini, nel rimbalzo tra azione e narrazione, tra contatto interpretativo e lettura al leggio. Il risultato è una catena fittissima di flashes in comunicazione tra loro, come anelli congiunti di una sola catena a cui vengono in aiuto tutti gli altri fondamentali elementi, dalle scene, alle luci, al sonoro.
Di grande effetto sono le scene di Gregorio Botta che custodiscono lo spazio tra base e coperchio. Sul palcoscenico – base – troviamo un letto singolo a destra, giaciglio di isolamento e dolore, ed un tavolino quadrato e due sedie a sinistra, teatro di ebbrezza e di incoscienza. A scendere dal soffitto – coperchio – tante funi che reggono indumenti vuoti, lasciati lì a penzolare ed, a sorpresa, anche un tavolo in metallo calato giù fino a terra, elementi in bilico a disegnare un labirinto sospeso che ora oscilla ora corre via veloce come il tempo scenico che accompagna. Costruzione curatissima ed adeguata nei tempi e nelle intensità per il disegno luci di Luca Barbati e Tommaso Toscanoche favoriscono le apparizioni e le sparizioni dei personaggi e dei contesti scenici; azzeccati i costumi di Antonella D’Orsi.
Il progetto sonoro che sorregge il testo teatrale è di geniale suggestione, nella costituzione della sua propria traccia e nella modalità di esecuzione. Una consolle sul fondo del palcoscenico accoglie GUP Alcaro. È quello il luogo in cui la partitura prende forma davanti agli occhi dello spettatore. L’azione e la parola sono accompagnate da una sequenza sonora minuziosa che riporta agli espedienti usati in cinematografia ma non esclude un richiamo a quel bisogno primordiale dell’uomo che conobbe il suono prima della parola. Ronzii di insetti, suoni di passi, di cassetti che si chiudono, o di strumenti di morte che compiono un destino, fino all’aria ed ai suoi spostamenti: ogni pezzo di quello spartito costituisce un tassello necessario, imperante e funzionale ad un’unica mappa musicale di inaudito e visibile fascino, in cui trovano giusta collocazione le musiche a cura di Giuseppe Vadalà.
“Ho ucciso me stesso non quella vecchia“. Eccezionali le interpretazioni di Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio che, insieme agli ottimi Francesco Bonomo e Francesca Pasquini, ripercorrono la ballata del conflitto dostoevskiano con magnetica ispirazione e con un ritmi altissimi. Rubini, abile architetto della costruzione scenica, appare e riappare portando a supporto del narrato gli altri volti del romanzo russo, come l’ubriacone Marmeladov o la madre dell’assassino, mentre il Raskòl’nikov totalizzante di Luigi Lo Cascio si abbandona al suo andare e perdersi, e al ritrovarsi per poi perdersi ancora. All’evocazione della pagina scritta, che fa degli attori i veicoli di una fruizione letteraria, si unisce rispettosamente la vertigine della carne in prima persona per restituirne delitto, disagio e furiosa lotta tra legittimazione e castigo. Un vortice ossessivo, una febbre che investe tutte le fibre degli interpreti e che si completa egregiamente nell’insieme scenografico ed acustico. “Sono stato io“.